Il canto della filandera

Poesia di Paolo Buzzi

Io amo, io amo!
Questo muggir dell’acqua, e del fuoco,
questo bollor della putredine,
questo filar dei fili senza termine mai,
queste larve di negra carne sfatta,
accendon le mie vene. Ho nude le braccia e le gambe.
Fra poco mi sbocciano i seni
fuor della tela macera di sudore.
Io amo, io amo!

E’ in mezzo alla foresta la prigione mia.
Il fumo dei fornelli e delle ciminiera
soffia come tormenta sui nidi.
Le capinere arrostano, in un ultimo canto paradisiaco,
all’inferno della mia fornace.
Le foglie degli elci e dei faggi e gli ontani attigui
vivono un giorno della loro primavera. Io vivo
un anno della primavera mia.

Noi si nasce perché si ha molta fretta di morire.
Bisogna strame assai per l’inverno: strame assai.

Vengo dalla tribù della fame:
qualche eritema pallido di pellagra mi tatua
le braccia che piacciono al Giso mio ch’è via soldato
e a Don Leo il curatino mio che mi confessa.
Ho tutti i miei, giovani e vecchi,
seminati nel campo che s’arbora di croci.
Dormo con la vacca (degli altri):
la vedo, impregnata, esplodere:
ogni vitello è il fratellino mio: che pianti
quando gli altri lo vendono! E non mangerò 
mai carne bianca, divenissi padrona! 
La ruota di pan giallo è agra e soda: tura
lo stomaco per ore. L’acqua 
fresca, all’alba,
è bollente all’aurora. Io bevo e vivo:
e le mosche e le pulci mi succhiano il sangue felice.
Questa bava ch’io filo è la mia ragna dove
me stessa attiro
e impegolo 
e avvoltolo
e sorbo fino all’osso.
Io sono il ragno suicida in giallo
fra due travi di forca
sopra una gora fumante di letame.
La spoglia mia non vale il bordocco
che mercano ancora i miei ricconi
sulla piazza, esca di pesci e d’usignoli.

Io amo, io amo!
Le spole che girano
mi dànno vertigini ignote.
Dalla finestra aperta il giorno m’appare
come una ruota pazza
che tutta mi prenda, arterie e capegli.
Mi sembra ch’io sia come una cascata 
della terra che rombi sul cielo.
E m’ubriaco della stessa linfa mia
rossa come orizzonte di vespero.
Bevo e vomito sangue. 
Non mangio e sono mangiata.
Qualcuno mi batte sulle carni ignude.
Io mi darei a qualcuno 
se mi battesse più forte sino a farmi morire.
Le nubi del fumo che volano
mi portano sulle cime degli angeli.
Che non vi sia lassù, chi mi sporga una lingua di piacere?
Io amo, io amo!

E canto.
Con la gola arsa da fuochi di fucina, io canto.
Canto il cuore, così, quale mi singhiozza.
Perciò, come canto, 
cadono dagli alberi della selva
le poche fronde ancora verdi. Strappate, cadono:
e il ramo, allo strappo, geme una lacrima:
e il bosco puzza di pioggia amara.
Le mie compagne cantano anch’esse il loro cuore.
Ci si sfiora cantando in coro al cielo d’Italia
la nostra lombarda gloria di dolore.
Un tempo, avevamo la testa stellata d’argento.
Ora, venduti gli spilloni delle nonne, siamo più povere
di quando eravamo più belle.
Ci si sfiora cantando in coro al cielo d’Italia
la nostra lombarda gloria di dolore.
Reca il vento, se gli Appennini appaiono, là in fondo,
l’eco d’un altro canto, giù dalle risaie.
Come le capinere
e come gli uomini che dicono poeti,
cantiamo.
Io canto come il poeta mio.
V’è un poeta che mi guarda, sì, mi guarda:
ogni sera, quand’esco dall’inferno
e torno alla mia cuccia di cagna.
E’ della Città immensa
dove l’Uomo ha fatto alla Donna una montagna di marmo.
Se non è ricco, pare. Ha gli occhi di frutto. Ieri
m’ha detto, a curvo d’un sentiero:
"Bella tu, non morire!".
Che mi dirà, stasera?
Egli è già là. Vedo l’ombra
che slunga dal boschetto sulla strada gialla.
Io voglio rispondergli come sento, se non come so.
Che mi farà domani? 
Non ho mai mangiato un dolce in vita mia.

Io amo, io amo!
Tornerà il Giso
quando il piccolo Re dei quattrini vorrà.
Se non ancora morta,
forse, mi sposerà. Ma crescon le nipoti di Don Leo…
La più grande guarda le SUE finestre chiuse…
Avrà due campi e il molino, a prete morto…

Non pensare al Giso soldato…
Compra femmine a due soldi in basso porto.
Non pensare al poeta che aspetta…
Sogna di farti un ventre e fuggir come il cervo.
La ragna fila
d’oro, d’oro, d’oro
e scottati le dita
e respira l’aria marcia
e canta il cuore
sino a fargli una crepa!
E tendi l’orecchio al suon della Macchina eterna
che ti divora le fibre:
e cerca d’addormentarti in quello come a una
Ninna-Nanna;
e torna, questa sera, a casa
pel sentiero del cimitero:
ché la strada maestra è piena di sassi
e tu potresti scagliarne uno
sull’automobili che volano in polvere
con le bagasce di seta dei padroni.